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L'infortunio durante la pausa caffè non va risarcito. Cass. Sez. Lav. 12.11.2021 n. 32473
MASSIMO NEGRI • 11 dicembre 2021

Cassazione Sez. Lavoro: "L'infortunio durante la pausa caffè non va risarcito". "Il lavoratore si assume rischi e pericoli".


Una sentenza che farà discutere quella emessa dai giudici supremi che hanno accolto un ricorso dell'Inail: anche se autorizzati dal proprio capoufficio la responsabilità è personale se si sceglie andare al bar, esterno all’ufficio, per la pausa caffè.

Niente invalidità e nemmeno indennizzo per malattia per il lavoratore che durante la pausa caffè subisce un infortunio: è la sentenza emessa dalla Cassazione. I giudici supremi hanno accolto il ricorso dell'Inail contro l'indennizzo e l'invalidità in favore di una impiegata della Procura di Firenze che si era rotta il polso cadendo per strada mentre era uscita per un caffé. L'impiegata era stata autorizzata dal proprio superiore ad andare al bar all'esterno dell'ufficio poiché lo stabile era sguarnito di un punto ristoro. Per la Cassazione la "tazzina" non è una esigenza impellente e legata al lavoro ma una libera scelta. Per i supremi giudici, non ha diritto alla tutela assicurativa dell'Inail chi affronta un rischio "scaturito da una scelta arbitraria" e "mosso da impulsi, e per soddisfare esigenze personali, crei e affronti volutamente una situazione diversa da quella inerente l'attività lavorativa", pur intesa in senso "ampio", "con ciò ponendo in essere una causa interruttiva di ogni nesso fra lavoro, rischio ed evento" di infortunio. Pertanto, prosegue il verdetto della Cassazione, "è da escludere l’indennizzabilità" dell'incidente "subito dalla lavoratrice durante la pausa al di fuori dell'ufficio giudiziario ove prestava la propria attività e lungo il percorso seguito per andare al bar a prendere un caffè, dato che allontanandosi dall'ufficio per raggiungere un vicino pubblico esercizio, si è volontariamente esposta ad un rischio non necessariamente connesso all'attività lavorativa per il soddisfacimento di un bisogno certamente procrastinabile e non impellente". La Cassazione argomenta che, con la scelta di andare al bar per la pausa caffè, la lavoratrice "ha interrotto la necessaria connessione causale tra attività lavorativa ed incidente". Ed è del tutto "irrilevante", prosegue il verdetto della Sezione lavoro dell'Alta Corte, "la circostanza della tolleranza espressa dal soggetto datore di lavoro in ordine a tali consuetudini dei dipendenti, non potendo una mera prassi o comunque una qualsiasi forma di accordo tra le parti del rapporto di lavoro, allargare l'area oggettiva di operatività della nozione di occasione di lavoro". Dunque, il permesso del capo, non garantisce assolutamente che la pausa caffè sia connessa a motivi di servizio. 


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I Giudici della Suprema Corte “ridisegnano” i confini – geografici occorrerebbe aggiungere – del rischio, indennizzabile dall’Istituto Nazionale, connesso all’attività lavorativa, di cui la pausa è comunque parte integrante, attesa la sua fruibilità quando l’orario di lavoro ecceda le sei ore giornaliere (art. 8 D. Lgs. 66/2003) anche in assenza di specifica previsione del contratto collettivo applicato. 

La pausa non perde affatto la sua qualità di diritto del lavoratore e quindi la sua copertura assicurativa, purché rimanga confinata all’interno dell’azienda ove solo si estende il dovere ed il potere di controllo della parte datoriale quanto a prevenzione e protezione della salute del prestatore.

Se la pausa rimane pur sempre un diritto, il sacrosanto diritto tutto italiano di riempirla con il piacere della tazzina al bar è invece misconosciuto dai Supremi Giudici se, per goderne, il lavoratore deve allontanarsi dal luogo di lavoro sottoponendosi ad un rischio disallineato ed avulso da quello dato dall’”occasione di lavoro”.


 


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